Tagli ai finanziamenti ministeriali per l’università italiana

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L’università italiana è ormai agonizzante. Al di là delle varie riforme susseguitesi in questi ultimi anni, che hanno portato al moltiplicarsi dell’offerta formativa proporzionalmente ad una diminuzione della qualità dell’istruzione garantita, gli atenei italiani sono sotto la gogna dei tagli ministeriali. Il problema di base è che non ci sono fondi: i pochi spiccioli che restano nelle casse del ministero, escluse le spese varie ed eventuali, riescono a mala pena a ricoprire gli stipendi dovuti ai docenti. Le università non possono assumere, il numero degli iscritti sta diminuendo spaventosamente mentre aumentano a dismisura corsi e sedi. E’ l’effetto Starbucks, secondo una metafora ampiamente utilizzata per spiegare la situazione delle università italiane nell’ultimo ventennio: non c’è più un solo prodotto mediamente buono e discretamente diffuso sul territorio, bensì una proliferazione di offerte variegate ma di dubbia qualità.

In base al D.lgs 49/12, è stato fissato un tetto alla spesa per il personale ( 80 per cento) e uno all’ indebitamento in percentuale alle entrate (10 per cento). Il quadro è applicabile non solo agli atenei minori ma anche, e soprattutto, alle grandi università italiane: La Sapienza ad esempio nel 2011 ha ricevuto dallo stato la stessa cifra del 2000 (circa 4 mila euro a studente), così come è accaduto al’ateneo napoletano, mentre Milano è tornata indietro al 2006. Sono solo alcuni esempi per far comprendere la situazione di regresso in cui versa l’università italiana. Si pensi che, dando un’occhiata alla tabella consultabile sul sito del ministero, emerge il dato allarmante di una diminuzione di circa 15 milioni di euro l’anno. Il numero dei laureati è diminuito proporzionalmente all’aumento delle sedi (95 di cui 11 telematiche, rispetto alle 26 di inizio novecento). L’economista Daniele Cecchi spiega in merito che «Una bassa mobilità degli studenti, per motivi culturali ma anche economici, ha moltiplicato le sedi», suggerendo di mantenere l’attuale configurazione territoriale delle “sedi staccate” per i corsi triennali, favorendo invece lo spostamento degli studenti per il biennio magistrale, così da aumentare il livello qualitativo delle grandi università.

La grande colpevole alla base del problema attuale sarebbe la nota riforma del “3+2” che ha fatto registrare subito dopo la sua entrata in vigore  un calo delle iscrizioni in rapporto ad un primo aumento degli insegnanti, dovuto alla frammentazione dell’offerta formativa in una miriade di discutibili piccoli esami da pochissimi crediti ciascuno (talvolta addirittura 2). C’è una radice malata dunque, che risiede nelle riforme che nell’ultimo ventennio hanno preso la nostra offerta formativa universitaria e ci hanno giocato frammentandola, riorganizzandola, generando una gran confusione ma soprattutto mortificando un patrimonio culturale dal valore inestimabile come quello italiano. Arrivare alla laurea, con una discreta preparazione per altro, è dunque al giorno d’oggi un’ardua impresa per il giovane studente italiano, che una volta raggiunto l’agognato traguardo si vede poi costretto a scappar via dall’Italia per mettere a frutto sul mercato del lavoro quanto appreso all’università, incrementando un’altra piaga del nostro paese malato: la fuga dei cervelli all’estero.

Per approfondimenti consultare  il sito del ministero: http://www.istruzione.it/

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